rec. Giovanni Papini - Gli operai della vigna
Pubblicato in: La Critica, anno XXVII, fasc. 2, p. 157.
Data: 20 marzo 1929
Questo scrittore, ormai decilustre, che da una trentina d'anni publica riviste su riviste e volumi su volumi, possiede senza dubbio, quella che si suol chiamare «la vena dello scrittore a, quella facilità di adoperare parole e forme, della quale sono sforniti altri che, pur avendo cervello e cuore, non si formano a scrittori senza qualche stento (sebbene, così stentando, pervengano ad opere vigorose e succose). Senonchè alla sua vena di scrittore non rispondono nè la forza della mente, nè l'abbondanza del serio e raccolto e tenace e verecondo sentire. Perciò egli non può, in fatto di critica, spingersi più innanzi di qualche singola osservazione appropriata; nè, in fatto di sentimento, più innanzi di qualche fuggevole espressione di all'etto, di qualche fresca impressione recatagli da uomini e cose. Se avesse saputo educarsi e vigilarsi severamente, avrebbe scritto non molte pagine, ma buone, e forse migliori di quelle poche che le persone di gusto possono ora trascegliere dai suoi troppi volumi e, pur con qualche riserva, lodare, praticando verso di lui quella giustizia che egli non osserva verso altrui. Ma, disgraziatamente, in lui c'è prepotente, invincibile, connaturato, — tale da non abbandonarlo mai nè giovane nè vecchio, nè uomo del disordine né uomo dell'ordine, nè blasfematore nè pio, nè ateo nè cattolico, — il demone dell'esibizionismo, del cerretanesimo, della miserabile vanità, che vuol sempre suscitare intorno a sè meraviglia o scandalo, sorprendendo e ingannando l'immaginazione della gente. E questo impulso è l'effettivo ispiratore della massima parte delle sue pagine, ed esso compone i suoi volumi, tutti, non esclusa la cosiddetta Storia di Cristo; ed esso lo induce ad atteggiarsi a uomo terribile, che poi non atterrisce nessuno, a ingiuriatore e calunniatore, che non ferisce i calunniati e gl'ingiuriati, perchè, in fondo, questi sanno cbe egli non ingiuria nè calunnia per malvagità ma per innocua vanità, e gli usano indulgenza vedendo che, senza quei gesti e quei detti, non potrebbe fare scorrere la sua «vena di scrittore», non potrebbe asciugare il calamaio che ha sempre grosso e pieno sul suo tavolino. La sola meraviglia che io provo a questo spettacolo (che, ripeto, dura ormai da più decennii) è come mai egli, che poi non è uno sciocco, non si sia ancora annoiato di questo suo giuoco, del quale è così evidente e noto il meccanismo. È vero che par che abbia pronta verso sè stesso la scusa: «Gli è che sono rimasto giovane...» (p. 216). Male essere stato giovane a quel modo; male rimanere giovane a quel modo; male, in ogni caso, rimanere giovane, quando la vera gioventù spirituale è, per l'adulto, saper essere adulto e, pel vecchio, saper esser vecchio.
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